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E’ che a volte piglia quella voglia di buono che…

Dovete sapere che mio marito nasce  e cresce a Milano, periferia nord- ovest, quatriere Certosa, nelle immediate vicinanze del Cimitero Maggiore. Insomma un postaccio.

All’inizio degli anni Settanta, quando l’abitudine di sani genitori era quella di lasciare che i bambini viaggiassero in auto senza cinture di sicurezza, di usare la saliva per togliere loro lo sporco dai visi, di guardare con indulgenza (o forse no, manco guardavano) i figli che condividevano con gli amici la stessa cannuccia, o lasciarli giocare con colori al piombo o con carrellini di compensato che schizzavano giù all’impazzata dalle rampe dei box, bene, in quei famosi anni Settanta, mio marito, che era un fanciullo di otto anni, usciva di casa a metà pomeriggio e non tornava prima del tramonto. L’unico modo di comunicare era urlare dal balcone e rispondere dalla strada, se non si era altrove.

Tuttavia, per quanto inquietante possa sembrare questo scenario ad una mamma di oggi, la cosa più terrificante è stato apprendere che il consorte bambino non rimaneva a giocare nel cortile sotto casa ma, con gli amici, si spingeva al di là del Cimitero Maggiore, che distava parecchie centinaia di metri da quella che oggi potremmo considerare una ragionevole zona di sicurezza,  in un luogo di cui manco sapevo l’esistenza: la discarica delle ossa.

In buona sostanza, una volta che il tempo aveva compiuto il suo scempio sul corpo esanime, ciò che restava del povero diavolo veniva buttato in una fossa comune a cielo aperto. E qui, i giovani virgulti di un tempo, si divertivano a imbracciare peroni e tibie per giocare alla guerra. La fantasia galoppava e l’ASL latitava.

E tenendo conto di questo contesto, improvvisamente mi si è dipanata la matassa, ovvero sul perché mio marito non riesca – ancora oggi  – a ricordare correttamente famose canzoncine non troppo complicate e a metterci involontariamente del suo. Per dire che, per lui, Jeeg robot d’acciaio non è mai volato  “tra lampi di blu” ma librava tra più suggestive “lapidi blu”.

E quindi giungiamo al bignè (e non vi sembri peregrina questa divagazione).

Sì perchè dopo questa entusiasmante sessione di gioco,  il ragazzo passava in latteria –  luoghi entrati a far parte del mito, dove trovavi un pò di tutto e che odoravano di formaggio e segatura, di cartone e zucchero a velo – per corroborarsi con giganti bignè, ripieni di una chantilly che io ricordo piuttosto scadente.

Ma erano tanto buoni e lui così affamato che attualmente rimane uno dei suoi argomenti gastronomici preferiti.

E io così cattiva e perennemente a dieta che non glieli faccio mai.

O quasi.

Mi son lanciata. Decidendo di farli ho optato per Ernst Knam, pasticcere austriaco di grande bravura. Sono davvero superlativi e sfido anche un rintronato culinario a non riuscire, con questa ricetta, ad ottenere perfetti bignè: morbidi, fragranti, profumati ma soprattutto…vuoti! (qui sotto quello gigante).

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Ricetta

Ingredienti

  • Acqua, 150 ml
  • Latte, 100 ml
  • Sale, 3 g sale
  • Zucchero, 8 g
  • Burro, 110 g
  • Farina, 155 g
  • Uova, 280 g

 

far bollire l’acqua, il latte, il sale, lo zucchero e il burro. Versare la farina setacciata a pioggia ie girare fino ad ottenere un impasto che si stacca perfettamente dalle paretidella pentola.

Togliere l’impasto dal fuoco, far intiepidire e unire pian piano le uova. Mescolare fino ad otterere impasto liscio e lucido.

Con una sac à poche munita di bocchetta liscia formate i bignè, allineandoli su su una teglia ricoperta da carta da forno.

Cuocere a 190 °C a metà forno per circa 12 minuti (quelli più grandi richiederanno circa il doppio del tempo).

 

 

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